GLI EVENTI

Il matrimonio per legatos di Costanza d'Altavilla (1185)

La vicenda umana di Costanza d'Altavilla, che ispirò a Dante Alighieri i commossi versi del Il canto del Paradiso, ha avuto come scenario delle nozze celebrate per legatos la città di Rieti.
Un'epigrafe murata nella loggia del palazzo papale, ancor oggi leggibile nella più recente collocazione presso la porta del salone, ricorda così l'evento:
"ANN. DNI M.C.LXXXV INDICT. 111 - MENS. AG. D. XXIII TEPORIBUS LUCII. 111 ET FRIDERICI ROMANORUM INP. BENEDICT. REATINE SEDIS EP. CORADI DUCIS SPOLETI. REX HENRICUS FILIUS EJUSDEM INP. RECER REATE REGINA CONSTANTIA FILIA ROGERII REGIS SICULI IN UXOREM P. LEGATOS SUOS. CUM MAMMA MULTITUDINE PRICIPUM ET BARONUM", "nell'anno del Signore 1185, terza indizione, il giorno 23 del mese di agosto, ai tempi di Papa Lucio III e dell'Imperatore Federico, del Vescovo reatino Benedetto e del Duca di Spoleto Corrado, il re Enrico figlio dell'Imperatore, per mezzo dei suoi legati, prese in moglie a Rieti la regina Costanza, figlia di Re Ruggero di Sicilia, con grandissimo concorso di principi e baroni".
All'epoca della lotta per le investiture, a cui aveva dato una fragile tregua il trattato di Benevento (1156), la discendenza del casato di Altavilla dominava l'Italia Meridionale.
Alla morte di Guglielmo II il buono, che non aveva avuto eredi dal matrimonio con Giovanna d'Inghilterra, il dominio sullo Stato normanno passò dunque a Costanza, che Federico Barbarossa ottenne in sposa per il figlio Enrico.
Molto più anziana del marito, distolta dalla ragion di Stato dalla vita monastica, quella di Costanza è una figura drammatica, che ben esprime la durezza dell'età in cui visse.
Alcuni anni più tardi, fu costretta addirittura a partorire nella piazza di Jesi, perché fosse impossibile dubitare della nascita del legittimo erede delle due casate più nobili e potenti del XII secolo.
Il matrimonio contratto a Rieti per legatos vide la presenza della sola sposa, accompagnata da Palermo da un ricco corteo di principi e baroni.
Enrico era infatti in Germania per la morte della madre.
La cerimonia si ripeté dunque nel 1186 a Milano, in Sant'Ambrogio, nonostante la validità legale dell'atto reatino, voluto dal Barbarossa per la rilevanza politica che assumeva la sanzione del Vescovo della Diocesi reatina, la prima città oltre i confini del Regno di Sicilia.
Resta invece impropria l'interpretazione che vuole Costanza d'Altavilla figlia di Beatrice di Rieti, erede degli ultimi Conti cittadini andata in sposa a Ruggero II: si tratta infatti di Beatrice di Rethel, nobildonna normanna.

 

Il presepe di Greccio

L'esperienza itinerante condotta da Francesco d'Assisi negli anni della fondazione dell'Ordine segna la valle reatina, in cui la sua presenza e la permanenza per lunghi periodi favorirono l'aggregazione dei seguaci e la fondazione di insediamenti nei luoghi scelti dal santo come romitori.
Da ciò deriva l'appellativo di Valle Santa alla conca reatina, costellata dai santuari francescani, eremi costituiti a contatto diretto con la natura, in ambienti rurali dai quali era possibile predicare "alla folla riunita non lontano", come racconta la Legenda di fra Tommaso da Celano, scritta fra il 1228 ed il 1229.
Sono essenzialmente le fonti agiografiche a documentare la presenza di san Francesco nel Reatino, esaltando l'esemplarità della sua vita e eternando la memoria delle sue azioni volte a catechizzare la "buona gente" dei borghi rurali prossimi a Rieti.
Durante la primavera 1223, Francesco è a Fonte Colombo, impegnato nella stesura della Regola per la sua fraternita: il luogo si presta per il suo isolamento e per la prossimità alla città di Rieti, dove alloggiava frate Elia con i ministri provinciali.
In quello stesso anno, in occasione del Natale, avvenne a Greccio l'evento che più ha inciso sulla devozione francescana.
Invitato da Giovanni Velita a festeggiare presso di lui le festività natalizie, secondo la testimonianza di Tommaso da Celano, Francesco ebbe un'intuizione felice decidendo di compiere una sorta di sacra rappresentazione dell'evento: "Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato su una greppia e come giaceva sulfieno tra il bue e l'asinello".
Sulla scorta della Vita di Tommaso da Celano, Bonaventura narra così il miracolo: "Tre anni prima della morte, Francesco, per stimolare la venerazione dei fedeli, decise di festeggiare vicino a Greccio il ricordo della natività del Bambin Gesù, con la maggiore solennità possibile.
Ma, perché ciò non venisse considerato un atto avventato, chiese ed ottenne prima il permesso del papa.
Fece preparare una mangiatoia, vi fece mettere del fieno e fece condurre sul luogo un bue e un asino.
I frati si radunano, la popolazione accorre; il bosco risuona di voci e quella venerabile notte diventa splendente di innumerevoli luci, solenne e sonora di laudi armoniose.
L'uomo di Dio stava davanti alla mangiatoia, pieno di pietà, bagnato di lacrime, traboccante di gioia. Il rito solenne della Messa viene celebrato sopra la mangiatoia e Francesco, levita di Cristo, canta il santo Vangelo.
Poi predica al popolo che lo circonda e parla della nascita del re povero che egli, nella tenerezza del suo amore, chiama il "bimbo di Bethlem", ogni volta che vuole nominarlo.
Un cavaliere virtuoso e sincero, che aveva lasciato la milizia secolare e si era legato di grande familiarità all'uomo di Dio, messer Giovanni di Greccio, affermò di aver veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo fanciullino addormentato, che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno.
E questa visione del devoto cavaliere non solo è resa credibile dalla santità del testimone, ma viene anche comprovata dalla certezza dei miracoli che seguirono questo prodigio
".

 

La canonizzazione di San Domenico

All'inizio dell'estate dell'anno 1234, papa Gregorio IX celebrò nella Cattedrale di Rieti il rito solenne di canonizzazione di Domenico di Guzman, fondatore di uno dei nuovi Ordini, detti Mendicanti per il convinto richiamo alla primitiva povertà apostolica, che contribuirono nel corso del XIII secolo a rivitalizzare la Chiesa di Roma.
Domenico di Guzman era nato a Calaruega intorno al 1170, da una nobile famiglia legata all'aristocrazia agraria e cavalleresca spagnola.
Compiuti gli studi teologici, aveva intrapreso una brillante carriera come canonico della Cattedrale di Osma.
Gli incarichi diplomatici a cui aveva adempiuto lo misero a contatto con il grave fenomeno dell'eresia, diffusa in particolar modo nelle regioni mediterranee della Francia meridionale.
Contro gli eretici, era stata recentemente condotta una sanguinaria crociata, che aveva portato allo sterminio dei catari di Béziers.
Domenico di Guzman comprese che l'eresia poteva e doveva essere combattuta con le armi della dialettica e della fede, rivelando le verità dottrinali e confutando gli errori.
Chiese perciò ed ottenne dal vescovo Folco di Tolosa il permesso di intraprendere un'intensa attività di catechesi, affidata alla predicazione ed alla preghiera.
Il numero crescente di adesioni ed i lusinghieri risultati indussero Domenico di Guzman ad istituire un nuovo Ordine religioso, adottando la Regola agostiniana con lo scopo di diffondere attraverso la predicazione il messaggio della vera fede.
I Frati predicatori, seguaci e successori di Domenico di Guzman perseguirono perciò il loro alto obiettivo mediante il duplice cammino dell'omiletica, rivolta al popolo che affollava le piazze e le chiese, e dell'insegnamento filosofico e teologico, praticato all'interno delle Università.
Fin dal 1217, papa Onorio III, confermando il nome e la missione dei Predicatori, sottoscrisse numerose bolle di raccomandazione a favore dell'opera intrapresa da Domenico di Guzman.
Questi mori a Bologna il 6 Agosto 1221.
Il 24 Maggio 1233, le sue spoglie furono traslate in un sepolcro più degno: la ricognizione del corpo incorrotto diede l'avvio al processo di canonizzazione, voluto da papa Gregorio IX.
La cerimonia solenne avvenne a Rieti nell'estate del 1234, precisamente fra il 29 giugno, festività dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, ed il 3 luglio, data di emanazione della bolla ufficiale.
Il papa era in città dal 2 maggio di quell'anno, accompagnato dalla sua corte: è significativa, pur nella sua casualità, la coincidenza che riaccosta a Rieti San Francesco d'Assisi e San Domenico di Guzman, i due santi che maggiormente contribuirono alla riforma della Chiesa nel corso del XIII secolo.

 

L'incoronazione di Carlo II d'Angiò (1289)

La storia della casata angioina s'intreccia più volte alla storia dei territori al confine fra il Regno di Napoli ed il Papato: in particolare, Carlo I d'Angiò aveva contribuito ad assicurare Benevento alla Chiesa ed aveva stretto patti vantaggiosi con il Papato, riconoscendo alla Chiesa il diritto di ricadenza del regno di Napoli in mancanza di eredi legittimi, l'obbligo dell'omaggio e dei tributi al Papa da parte dei re di Sicilia e di Puglia, la restituzione dei beni sottratti dagli Svevi come bottino di guerra alle chiese.
Inoltre, tale patto impegnava Carlo ed i suoi eredi a non pretendere di unire il loro regno ad altri possedimenti in Italia, scongiurando di fatto i rischi più gravi di perdita della autonomia temporale da parte della Chiesa.
Non c'è dunque da stupirsi se il 29 maggio 1289 papa Niccolò IV procedette nella cattedrale di Rieti all'incoronazione solenne di Carlo II d'Angiò, figlio e successore di Carlo I.
Questi era morto nel 1285; il figlio Carlo lo Zoppo, fatto prigioniero da Ruggero di Lauria per conto del re d'Aragona, fu liberato soltanto nel 1288 e successivamente riconosciuto come legittimo sovrano.
Fallita l'impresa di riconquista della Sicilia, Carlo II dovette sottostare agli accordi della pace di Caltabellotta (1302).
In occasione della solenne cerimonia dell'incoronazione, Carlo lo Zoppo volle che il pontefice si attenesse ai cerimoniali adottati per i re di Francia: pertanto, il cardinale Giacomo Stefaneschi provvide a registrare puntualmente tutte le sequenze dell'azione, piuttosto insolita per la curia romana.
Il papa precedette in cattedrale il corteo del sovrano, che vi giunse accompagnato da un dignitario di corte, con la spada sguainata. Vestitosi del manto da sovrano, attraversò la chiesa a capo scoperto, fu accolto da un gruppo di cardinali e si prostrò a terra, davanti all'altare.
Diaconi e presbiteri intonarono le loro preghiere.
Il cardinale Latino Orsini, vescovo di Ostia, provvide all'unzione del re con l'olio per gli esorcismi.
Il sovrano mutò le vesti e, finalmente, ricevette dal papa il bacio della pace. Seguirono altri atti simbolici, quali la deposizione della spada sull'altare e la sua successiva restituzione da parte del papa, prima dell'incoronazione vera e propria, accompagnata dalla solenne frase: "Accipe signum gloriae", "Prendi il segno della gloria".
Insieme con la corona, Carlo II ricevette lo scettro ed il pomo simbolo del potere.
Per tre volte, il sovrano sguainò la spada prima di deporla definitivamente e di baciare i piedi del papa, in segno di sottomissione.
All'offertorio, si ripeté il rito del bacio del piede, accompagnato da doni munifici offerti dal sovrano al pontefice.
Al termine della Santa Messa, il papa salì a cavallo davanti al portale maggiore della chiesa, ed il sovrano gli resse le briglie della cavalcatura, conducendolo fino alle scale del palazzo.
Così si compì a Rieti un atto solenne, dai forti significati simbolici e dalle indubbie conseguenze politiche nella dura temperie della fine del Duecento.

 

Rieti fra Restaurazione e Risorgimento

Rieti, che per poco meno di un decennio durante la Restaurazione, fra il 1816 ed il 1824, può elevarsi al rango di Delegazione Pontificia, paga inevitabilmente le conseguenze della sua condizione di città di confine: nel 1821, subisce l'occupazione da parte delle truppe napoletane guidate dal generale Guglielmo Pepe, che si scontreranno presso il Colle di Lesta con l'esercito austriaco, capeggiato dai generali Geppert e Walmoden, il cui intervento è richiesto dal re delle Due Sicilie Ferdinando I.
Superato lo sbarramento opposto ai confini del Regno, gli Austriaci contribuiranno presto a rovesciare il governo costituzionale.
Dopo un decennio di relativo equilibrio, i moti del 1830-'31 coinvolgono di nuovo la città di Rieti.
Gli eventi francesi del Luglio 1830 infiammano gli animi dei liberali ed incoraggiano i patrioti ad insorgere.
Dall'Emilia alla Romagna, dalle Marche all'Umbria sono sempre di più le città che insorgono e proclamano la fine del potere temporale della Chiesa.
Perugia, Spoleto, Narni, Terni si danno un governo provvisorio, mentre Rieti rimane strenuamente fedele al Pontefice.
Questa è la cronaca degli avvenimenti, riportati nelle Notizie del giorno di Roma: "Rieti - 9 Marzo. Ieri al primo albeggiare comparve a tiro di cannone da questa città una numerosa orda di ribelli capitanata da Sercognani, e intimò la resa. Come esigeva il dovere, ne fu negativa la risposta. Alle ore 15 cominciò il fuoco, al quale questa fedele guarnigione rispose con vigore. Esso durò per ben tre ore, e al termine del quale Sercognani fece nuove intimazioni di resa, accompagnate da più gravi minacce. Il luogotenente Impaccianti, sicuro del valore di questa brava guarnigione e del suo comandante, tenente colonnello Bentivoglio, nonché del buono spirito degli abitanti, rigettò la proposizione con indignazione ancor questa volta, e si diede principio nuovamente al fuoco, che non cessò se non all'imbrunire."
La battaglia si conclude con numerose perdite tra le file dei ribelli, mentre soltanto un reatino muore, colpito da una palla di cannone.
Il letterato Angelo Maria Ricci, che prudentemente si era allontanato da Rieti "per osservazione e per cautela", elogia Rieti "semper fidelis" e raccoglie il sentimento popolare, che attribuisce la vittoria all'intervento salvifico delle due protettrici della città, Santa Barbara e la beata Colomba.
A fine maggio, si tiene in Cattedrale un solenne triduo di ringraziamento, in onore delle due compatrone, a cui fu associata la Madonna del Popolo.
In questa circostanza, il canonico Carlo Latini pronuncia in un'adunanza dell'Accademia Velina la dissertazione La fedeltà de' Reatini a' romani pontefici.
Lo stesso canonico torna sul tema, argomentando sulla scorta di riferì menti storici e notazioni giuridiche, nell'inedito Ingiustizia, infamia, stoltezza della rivoluzione del 1831.
La fedeltà osservata dai Reatini fu riconosciuta e premiata con il ripristino della Delegazione, ma non valse comunque ad invertire il corso della storia.

 

Garibaldi a Rieti

In due diverse circostanze, Rieti ospita Giuseppe Garibaldi, eroicamente impegnato nelle imprese che porteranno a compimento l'unità d'Italia: nel 1848 - '49, al tempo della Repubblica Romana di Mazzini, Armellini e Saffi, e nel 1867, quando Rieti è già parte del Regno Sabaudo e l'eroe dei due mondi tenta l'impresa di Monterotondo e Mentana per conquistare Roma e farne la capitale dell'Italia unita.
Garibaldi giunge avventurosamente a Rieti nel gennaio 1849, mentre a Roma l'attività rivoluzionaria è in fermento.
Il generale intende presidiare con le sue truppe il confine con il regno borbonico, come comunica al Ministro delle Armi del governo provvisorio, conte Pompeo di Campello: "Eccellenza, domani raggiungerò colla mia colonna Foligno donde mi dirigerò a Rieti punto che mi sembra molto conveniente per organizzare il battaglione e ricevere da Roma l'armamento e quanto altro necessario".
I propositi di Garibaldi sono ancor più ambiziosi, intendendo non soltanto proteggere i confini, ma muovere contro le truppe di Ferdinando II, presso cui il papa Pio IX aveva trovato rifugio a Gaeta, qualora questi avesse tentato di ripristinare il potere temporale.
Da Rieti, Garibaldi parte per sferrare l'attacco contro le truppe del generale Oudinot, sconfitte alle porte di Roma il 30 aprile 1849, per muovere poi vittoriosamente contro le truppe borboniche (battaglie di Palestrina e di Velletri, maggio 1849).
La Repubblica Romana, nonostante la strenua resistenza di villa Pamphili, villa Corsini e del Vascello, cade il 3 luglio; Garibaldi con le sue truppe muove verso Venezia assediata.
Durante la sua lunga permanenza a Rieti, era stata con lui dal 25 febbraio al 13 aprile la moglie Anita.
Insieme abitarono nel palazzo del marchese Colelli, in via Abruzzi, ed intrattennero rapporti rispettosi e cordiali con la popolazione e con le autorità locali.
Le cronache registrano infatti l'omaggio reso da Garibaldi alla salma di monsignor Filippo Curoli, vescovo di Rieti, morto il 26 gennaio 1849.
Alle esequie del presule, il generale volle che le sue truppe rendessero gli onori militari.
In altre circostanze, intervenne a sedare le intemperanze dei suoi soldati, imponendo loro un atteggiamento di dignitoso rispetto delle tradizioni e delle pratiche devozionali, in occasione dei riti della Settimana Santa.
Assai più breve è il passaggio del generale a Rieti nel 1867.
Fa sosta a Rieti il 23 ottobre, presso palazzo Vincentini, dal cui balcone saluta la folla che lo acclama: "Sono veramente fortunato di rivedere dopo circa vent'anni questa cara città, dove fui generosamente ospitato. Mi consola vedere riuniti con tanta concordia popolo ed esercito ( ... ) Questo è il più bel giorno della mia vita. Questa dimostrazione è uno spettacolo veramente sorprendente e ringrazio voi d'avermelo procurato. Intanto addio. Vi saluto di cuore".
La sconfitta a Mentana, dove le truppe garibaldine si scontrano con l'esercito francese armato dei nuovi fucili "chassepots" allontanerà definitivamente il generale da Rieti e dal Lazio.